sabato 29 agosto 2009

crudele

ottima idea
insegnare al tuo figlio,
di appena quattro
(4)
anni
ad usare la macchina
self service
delle sigarette.

si si, ottima idea
mi verrebbe
da metterti i denti
sul bordo di un marciapiedi...
e fare due salti
proprio sulla tua testa

venerdì 21 agosto 2009

Luisa e il Tritone

Padre

La vita di Luisa era cambiata da circa un anno e mezzo. Il giorno della laurea suo padre la abbracciò. Ho una sorpresa per te le sussurrò, accostando le sue labbra al viso della figlia.

Il loro rapporto era sempre stato speciale. Lui amava sua figlia e in lei, aveva detto più di una volta, ritrovava buona parte della sua anima. Da sempre operaio, entrò in fabbrica subito dopo la scuola ed era andato in pensione l’estate prima.
Era stato in piazza per le contestazioni insieme ad altri suoi compagni, aveva fatto parte del sindacato per un po’ ma poi lasciò perdere, deluso dall’involuzione che aveva percepito sulla sua pelle.

Aveva sempre avuto un’indole umanistica, leggeva da sempre libri di ogni genere e aveva trasmesso quella passione solo a Luisa.
Gli altri due figli, maschi, finirono per studiare entrambi economia, ma i loro libri non avevano nulla a che vedere con i saggi che lui divorava durante le contestazioni.
Quando tornavano a casa per le vacanze, portavano libri di marketing e organizzazione aziendale, che lui aveva sfogliato, ma che riteneva al di fuori delle sue letture, che considerava strumento per l’elevazione morale.
Le parole scritte sui vostri libri le ascoltavo dai bancarellari dei mercati della frutta trent’anni fa. Ripeteva ironicamente. Del resto quei bancarellari oggi lavoravano all’ingrosso, spostando camion di frutta dal sud al nord.

Al paese lo chiamavano il professore.
Al sud, visto l’intrecciarsi di parentele e nomi di santi, più o meno onorati, era indispensabile creare un’anagrafe alternativa e da qui quel soprannome.
Da ragazzo lo s’incontrava spesso in piazza, a leggere libri che prendeva in prestito dalla piccola biblioteca della parrocchia. Poi, dopo uno scontro storico con il parroco, che coinvolse indirettamente tutti i suoi paesani, cominciò, nei pomeriggi dopo la scuola, ad andare con la corriera in città dove, in biblioteca, cominciò ad intravedere la quantità di cultura che fino a quel momento era stata prodotta.
   
L’ultimo anno di scuola, chiunque avrebbe scommesso che lui sarebbe stato uno di quelli che a diciotto anni partiva per l’università e tornava più. E nulla gli avrebbe impedito di farlo, se non ché, l’estate dopo la fine della scuola, conobbe la sua futura moglie, che lo sarebbe diventato tre mesi prima di diventare la madre della sua prima figlia. Laura, per l'appunto.
Con una figlia in arrivo la sua prospettiva cambiò radicalmente. Ma non fu particolarmente traumatico. Trovò lavoro nella fabbrica che offriva posto alla maggior parte degli uomini della sua zona.

Per i suoi diciotto anni, durante un viaggio che padre e figlia fecero a Parigi, le aveva regalato un anello con un solitario, che lei sempre portava all’anulare sinistro, incurante del significato che quell’oggetto, portato a quella mano, poteva comunicare.

Ora sua figlia era laureata. Aveva studiato un anno all’estero, parlava tre lingue e lui, che non si disse mai fiero – che fiero per lui era una parola che lasciava trasparire egoismo – quel giorno era gonfio di gioia.
Vedeva sua figlia indipendente, libera e con un futuro brillante nelle sue mani.

Quando, il suo ultimo giorno di lavoro, gli comunicarono l’ammontare della sua liquidazione, non immaginò il denaro, ma l’appartamento che avrebbe comprato alla figlia. Lì nella città dove aveva studiato, lontana 8 ore di treno dalla sua, di casa.

Dopo i festeggiamenti, Luisa seppe dell’idea e ne fu commossa.
Se pensi che non sia ancora il momento non ti preoccupare, terremo congelati i soldi e quando saprai che fare… li metteremo nel microonde disse il padre, che da sempre aveva fatto in modo che tra lui e la figlia non ci fossero né formalità né bugie. Ci penso… grazie… disse Luisa con gli occhi scuri brillanti d’emozione.

E Luisa ci pensò poco, anche perché per lei non fu difficile trovare un lavoro in città. Dopo qualche giro comprò un bilocale al piano terra di una viuzza del centro. Aveva l’ingresso su un cortile interno e dopo qualche lavoro, al quale il padre partecipò sia come supervisore sia come operaio, lei sapeva che quella sarebbe stata, dopo anni di precariato abitativo, la sua nuova casa.

Amedeo

Luisa stava insieme Amedeo, ancora studente, di un anno più piccolo di lei.
Studiava architettura e aveva conosciuto Luisa il primo anno d’università, grazie ad una catena di amicizie che li fece conoscere e li legò. Si erano lasciati, quando lei era partita per l’erasmus in Francia ma si erano rincontrati appena lei tornò.
Amedeo non era fuorisede; fino a quel momento aveva vissuto con la madre separata dal marito. Luisa era stata sempre in doppia con ragazze che facevano la settimana corta e quando la stanza si svuotava lui andava da lei.
Ora, vivendo nella stessa città, i due passavano quasi ogni sera insieme e, di conseguenza, ogni notte. Al risveglio Amedeo era costretto a tornare a casa, docciarsi, cambiarsi ed uscire di nuovo.

Che stupido sei, diceva Luisa, ma portati il cambio e gli asciugamani qui, senza che ogni volta fai il viaggio fino a casa tua, ma a lui andava bene così.

Era figlio unico e immaginare la madre sola nella grande casa… no non era un’alternativa plausibile. Ma Luisa, non riusciva a capire e, lentamente, cominciò a percepire questa cosa in maniera fastidiosa ma consapevolmente inconscia.

Un giorno, vedendolo stravaccato sul suo divano coperto da un telo verde, come un bovino pigro, perse il controllo – non le capitava spesso – e gli chiese di andare via di casa. Amedeo si alzò si infilò le sue adidas consumate, raccolse i libri aperti sparsi sul tavolino, li lasciò cadere nella sua tracolla color senape, indossò i suoi occhiali da sole e, senza dire una parola, uscì di casa.
Luisa cominciò a spolverare e mettere in ordine, bruxando senza lasciar tregua ai suoi molari. In queste situazioni, la sua mente era contemporaneamente libera e confusa, e mettere in ordine fuori, diceva poi a mente fredda, mi serve a mettere ordine dentro.

La doccia

La mattina dopo Luisa era sotto la doccia.
 
Tutto il bagno era da rifare e la colletta che i parenti avevano fatto per la laurea le permise di sbizzarrirsi. Aveva parlato con suo padre per parecchi giorni cercando di spiegargli come l’immaginava.
Alla fine, non c’erano dubbi, il bagno era il gioiello della casa. Le piastrelle sui toni del verde, molto chiari nella fascia centrale e molto scuri in alto e in basso. La doccia era in muratura, aveva preso il posto della vasca e quindi era abbastanza ampia. La cipolla era enorme, la più grande che avessero trovato e la tendina, anch’essa verde con disegnati dei profili di delfini, separava con perfezione cromatica i due spazi.
Per Luisa quello spazio era un grembo prenatale. Un luogo speciale, magico. Ad enfatizzare questa natura c’erano gli odori delle creme e dei saponi, che lei sceglieva con un rituale preciso, nelle profumerie ed erboristerie della città. Amava gli odori forti, maschili, naturali. Per anni sua mamma le aveva comprato saponi al muschio bianco e lei, dal giorno che poté scegliere, ripudiò quel odore che le rappresentava l’infanzia. Usava saponette dure, al sandalo e il sapone di Aleppo.
Aveva anche una filodiffusione – questo era stata opera dei fratelli –, che permetteva, dal computer della sala, di far arrivare la sua musica anche lì. Aveva una cartella Doccia tra i suoi documenti, nella quale teneva le musiche che ascoltava quando era lì. C’erano musiche per la meditazione, indiane, arabe, ma anche opera lirica e cantautori italiani.

Qualche volta Amedeo usava la sua doccia. Ma per lei quello spazio era uno spazio banalmente fisico. Era con lei dentro che diventava spazio sacro, lei lo sapeva e lo sentiva e non ne era gelosa.

Quel giorno le arrivava la voce acuta di una donna che cantava sulle musiche di orchestra. Lei rivolgeva il viso verso il getto e lasciava che l’acqua le colpisse il volto. Passava sempre qualche minuto dopo essersi svegliata, senza sapone, solo con l'acqua che le scorreva lungo il corpo. Poi abbassava la leva che regolava il flusso, si insaponava dai capelli ai piedi, si massaggiava qualche minuto con le mani che le scivolavano addosso con l’attrito ridotto da quel sasso profumato. Poi si allontanava dalla traiettoria del getto e lasciava che la temperatura fosse quella desiderata. Lasciava poi che la schiuma precipitasse, trasportata dall'acqua, verso il tombino ai suoi piedi. Chiudeva il rubinetto. Agitava la testa per liberarsi dell’acqua rimasta imprigionata nei suoi capelli scuri e ricci. Poi usciva e si avvolgeva nell’asciugamano enorme che teneva appeso ad una testa di cane con ventosa. Poggiava i piedi puliti su un tappetino rettangolare che l’accompagnava fino al lavandino. Lì, guardandosi allo specchio, tirava i capelli all’indietro. Rimaneva a fissarsi negli occhi qualche secondo. Era il suo rito mattutino. E per lei era un momento fondamentale. Era lì che rinasceva ogni mattina.

Uscì di casa. C’era un bel sole primaverile. La gente era già in strada. Passò dal suo bar dove la signora, mentre preparava il solito caffé d'orzo in tazza grande, che bella ragazza ripeteva ogni volta e lei sorrideva. Aveva abiti leggeri, con colori tenui e indossava sandali neri a pianta bassa. Era ancora freddo, ma amava tenere i piedi nudi.
A passo svelto si diresse verso il parcheggio coperto, dove aveva l’abbonamento mensile e dove teneva la sua lancia Y, che era di sua madre ma che ereditò quando lei prese una macchina giapponese.

Buongiorno, disse distrattamente superando il gabbiotto di vetro dietro il quale sedeva il guardiano. Quel giorno però il suo sguardo si poggiò per qualche istante in più sulla figura incorniciata dietro quella specie di finestra. Non era il solito uomo con i capelli bianchi che fissava costantemente un televisorino poggiato sul tavolino. C’era un ragazzo, sulla trentina, con un libro di fronte a sé, con gli occhi che da sopra le lenti degli occhiali la guardavano sorridendo. Alzò la mano per salutare e le sue labbra si mossero, ma il vetro impedì al suono di arrivare a lei. Carino, pensò, ma già non lo guardava più.

Lavoro

Luisa lavorava in una società che creava siti WEB. Lei era l'assistente del direttore commerciale e svolgeva varie mansioni. Dalla segreteria alla traduzioni di lettere e documenti fino a coordinare i sui colleghi che, in giro per il mondo, presentavano i prodotti e cercavano di intravedere possibili clienti. Era entrata senza sapere bene cosa avrebbe potuto fare, ma nel giro di qualche mese aveva già tutto sotto controllo. Il suo responsabile aveva cominciato a fidarsi di lei da subito e lei non lo aveva mai deluso. Lavorava dalle 8.30 di mattino fino alle 18.30, a volte prolungava il suo orario se c'era qualche problema o qualche attività extra, ma la sua disponibilità era totale.

Verso le dieci provò a telefonare ad Amedeo, ma sapeva che in quel momento lui era a lezione e, non ricevendo risposta, gli scrisse un messaggio senza pensarci sù.
Ciao, mi dispiace per ieri. Dobbiamo parlare, mi piacerebbe che tu venissi a stare a casa mia. Pensaci. A dopo.
Sapeva che era arrivato il momento di risolvere la questione e sapeva anche che il suo uomo non avrebbe mai rotto quel fastidioso equilibrio silenzioso che reggeva quella fase del loro rapporto. Doveva essere lei a demolirlo, l'equilibrio, assumendosi il rischio delle conseguenze.
Non le interessava sposarsi. Suo padre le aveva raccontato la sua interpretazione culturale del rito religioso e lei lo aveva assorbito e ora lo condivideva. Ciò che la indirizzava verso la concretizzazione della sua relazione con Amedeo era la voglia di una famiglia, di figli. Aveva un buon lavoro, stabile e sapeva che lui, una volta laureatosi, non avrebbe avuto problemi a trovarne uno. Era necessario perciò capire se il loro rapporto potesse essere quello giusto e per questo lei aveva bisogno di condividere con lui la sua quotidianità.

Tornò a casa al solito orario e parcheggiò la sua auto al solito posto. Poi s’incamminò verso l'uscita e si ricordò del ragazzo del gabbiotto. Era ancora lì, immobile nella postura e nello sguardo. Lei gli sorrise e lui disintrecciò le dita delle mani, tenute come in preghiera, e alzò la mano destra.

Amedeo non diede alcun segnale fino alle otto di sera, finché, sovrapponendosi alla sigla del telegiornale, trillò il campanello. Lei sbirciò tra le tendine della finestra e lo vide. Aveva, tenuta sulla spalla destra, leggermente rialzata, la solita tracolla e nella mano sinistra un borsone sportivo. Lei sorrise. Lo fece entrare e quella notte lui dormì da lei.

Le prime parole

La mattina dopo Luisa ordinò il solito orzo, e poi aggiunse mi dia anche un tramezzino da portar via. Prosciutto e formaggio. Poi uscendo, con il sorriso che faceva eco ai soliti complimenti della signora al bancone, sfilò il tramezzino dalla busta di carta biancosporco e cominciò a dare piccoli morsi al triangolo. Decisamente, il tramezzino era la sua colazione preferita. E quella mattina lei era contenta della notte appena passata e volle celebrarla così.

Entrò nel parcheggio sovrappensiero.
Signorina, si sentì chiamare da una voce leggermente distorta da una piccola cassa acustica. Si girò e vide il ragazzo. Buongiorno signorina, le devo chiedere una cortesia – Dimmi – La prossima settimana dobbiamo fare dei lavori nella zona che le è stata assegnata e di conseguenza le devo chiedere di parcheggiare, temporaneamente, al parcheggio A14, che é proprio vicino la rampa di uscita. - Come? - Disse Luisa che fu un attimo spiazzata dallo sguardo del ragazzo. Lui le ripeté le parole, scandendo bene le parole, e concluse la frase con il solito sorriso – A14 dice? D'accordo. Ma quanto dureranno i lavori? - Guardi, circa una settimana, dovremmo pitturare le pareti e evidenziare le strisce a terra... spero questo che non le causi problemi. - Ah no no, non ti preoccupare... - Allora grazie, se ha bisogno di qualcosa mi faccia sapere – Ok grazie, buona giornata – Buona giornata.

Luisa percorrendo i 30 metri fino alla sua auto percepì qualcosa. Era un “qualcosa” di relativamente nuovo, indefinibile. Non era una sensazione fisica, ma d'altra parte non poteva classificarla come qualcosa di mentale. Era una fusione tra le due cose. Localizzò la sensazione all'altezza della pancia, ma sentiva una specie di formicolio in alcune parti periferiche del resto del corpo. Un solletico strano, che dopo qualche secondo raggiunse la parte posteriore delle orecchie. Si tocco l'orecchino di quarzo che portava sul lobo sinistro e quasi istintivamente si sfioro il collo, quasi per verificare che non ci fosse nulla di esterno a produrle quel formicolio. Sorrise leggermente turbata e rivide per un istante gli occhi sorridenti del suo interlocutore di qualche secondo primo. Entrò in macchina. Fece un sospiro e quelli strani messaggi fisiologici si spensero. Mise in moto l'auto. Ma dopo qualche secondo l'auto si spense. Sorrise. Quasi pensò di andare a chiedere aiuto al ragazzo. Fece un altro tentativo ma, questa volta tutto funzionò. Che strano inizio di giornata.

I giorni seguenti Luisa si rese conto che il parcheggio A14 aveva il pregio di essere vicino sia alla rampa di uscita che all'ingresso pedonale. Così però, per una decina di giorni, non le capitò di passare davanti al gabbiotto. A dirla tutta dopo un paio di giorni si dimenticò di quel dialogo, anche perché Amedeo, dopo quella borsa, cominciò a portare nella loro casa parecchia roba e, nelle serate dopo l'ufficio, erano a casa, cercando di sistemare il nuovo coinquilino.

In quei giorni ebbe l'esigenza di sentire frequentemente suo padre. Normalmente si sentivano solo la domenica, facevano una lunga chiacchierata, lui le diceva che libri stava leggendo e lei gli raccontava cosa le capitava.

Amedeo si è trasferito a casa – Chi l'architetto? - chiedeva ironico il padre.  L'aveva conosciuto “l'architetto” e dopo essersi presentato Dammi del tu gli aveva e Amedeo non ebbe problemi a farlo. E come va? - Bene, stiamo sistemando le sue cose, credo che dovremo comprare un altro armadio – E dove lo mettete? - Di fronte al letto – Ma così la stanza diventerà minuscola – Tanto la usiamo solo per dormire, il resto del tempo stiamo in cucina o in salotto.. e forse non farebbe male neanche prendere un nuovo scaffale per i libri – Questa mi sembra una buona idea. Ho visto all'IKEA uno scaffale a 59 euro, ma tua madre mi ha impedito di comprarlo; secondo lei i libri già letti vanno messi in cantina, che i libri accumulano polvere – Gliel'hai detta la tua teoria sulla polvere? - Già la conosce, ma non credo che l'abbia mai convinta.

Quella sera la giovane coppia stava finendo di cenare sul tavolo di legno chiaro in cucina. Potremmo invitare tua mamma per un pranzo, non è mai stata qui – Va bene, le dico per domenica – Sì, ma che le prepariamo? - fai te, cucini meglio di lei, non farti problemi; però sicuramente poi vorrà invitarci lei a pranzo –E’ anche ora no? Stiamo insieme da 5 anni oramai, mi sembra normale – Se lo dici tu...

Quel pranzo andò bene. Luisa, abile cuoca, preparò delle piadine con stracchino, prezzemolo e salmone affumicato, delle linguine con pesto e zucchine grigliate e degli straccetti in salsa di soia. La mamma portò le pasterelle della domenica e tutto si svolse in maniera equilibrata. Luisa e la mamma di Amedeo conversavano amabilmente e quest'ultima riempì di complimenti la giovane padrona di casa per il buon gusto con il quale aveva sistemato casa. Lui rimase in silenzio per la maggior parte del tempo, apparentemente imbarazzato da quell’incontro che avrebbe unito le due donne con le quali condivideva la sua vita. A fine pranzo preparò un caffé e si spostò nel salotto per la gara di Moto GP. Le due donne rimasero a chiacchierare in cucina e Amedeo, a tratti, cercava di interpretare i suoni che provenivano dallo spazio accanto. Verso le quattro la mamma, accennando ad un pranzo collocato in un futuro non meglio definito, si preparò per andare. Luisa si offrì per accompagnarla a casa – la donna non aveva la patente e si spostava con i mezzi pubblici. Amedeo, essendosi conclusa la gara, andò con loro. Luisa si diresse verso la solita entrata pedonale, ma un gruppo di ragazzi dai lineamenti nordafricani erano piazzati proprio sul loro passaggio, sorseggiando da lattine grandi di birra e discutendo in maniera animata, godendosi il sole di quella domenica.
Che brutta gente – sussurrò la madre di Amedeo. Magari passiamo dall'altro ingresso suggerì Luisa e così fecero. Era da alcuni giorni che Luisa non passava di lì, ma quando entrò nell'ombra del garage vide il gabbiotto. Per una frazione di secondo rese asimmetrico il suo passo. Proseguì e il ragazzo era lì, con gli occhi bassi sul libro che gli era di fronte. Quando i tre furono nel suo campo visivo, lui prima alzò lo sguardo posandolo distintamente sulle tre figure, poi si concentrò su Luisa. Signorina! si sentì dalla cassa. Luisa per un attimo pensò di proseguire facendo finta di non aver sentito. Ma Amedeo si arrestò e con lui anche la madre. Luisa allora fu costretta a dargli la sua attenzione. Questa volta cercò di impedire che l'immagine che le si presentava di fronte provocasse sensazioni indipendenti. Le volevo solo comunicare che abbiamo terminato i lavori. Può tornare al suo parcheggio originario – Grazie replicò lei e per un attimo ci fu uno strano silenzio. Ciao. Concluse e mosse il passo verso l'A14. Che educato questo giovane disse la madre di Amedeo, ti da del lei? Ma ha la tua età.. – Non ci avevo fatto caso fece lei, che nel frattempo manteneva a freno la sua nuova emotività. Era stata sempre capace di gestire le sue emozioni al meglio ma, quel ragazzo, e le sue parole, ogni volta sembravano toccare delle zone nuove che lei non conosceva, né sapeva controllare. Beh mi sembra giusto fece Amedeo con un sorriso che Luisa giudicò odioso tra sé e sé. Luisa è pur sempre una dottoressa, inserita in un mondo che probabilmente lui considera superiore al suo. Non è da tutti permettersi un parcheggio in centro. Oltre ad essere infastidita dal concetto espresso, Luisa considerò anomala la reazione cinica di Amedeo. Quello scherzo classista non era da lui. Ma non si sarebbe così meravigliata se non fosse stato l’aver usato quella ironia alla presenza della madre, che lei sapeva di indole profondamente borghese e, appunto, classista. Non ci furono repliche alle sue parole. Luisa era abbastanza spiazzata e la madre considerava addirittura scontato il concetto espresso.
Rientrando a casa Luisa chiese spiegazioni per quelle parole. Ma Amedeo concluse il confronto con un dai, lo sai che scherzavo.

L'eleganza

Il giorno dopo Luisa, dopo la solita doccia, si preparò per uscire. Non passò dal bar, concentrata, e anche po' emozionata, per ciò che avrebbe voluto dire al guardiano del parcheggio. La sua auto, dalla sera prima, aveva lasciato l'A14 ed utilizzò l'ingresso che l'avrebbe condotta al gabbiotto. Il ragazzo era sempre lì. Quella mattina però era al telefono e non c'erano libri in vista. Luisa raccolse più aria che poteva nei polmoni, preparò un bel sorriso e si avvicinò a lui. Il ragazzo sembrò imbarazzato per essere stato scoperto mentre parlava al telefono e, con le labbra che mimavano un saluto frettoloso al suo interlocutore telefonico, diresse lo sguardo verso la ragazza. Ciao, fece lei, Buongiorno, ha bisogno di qualcosa? - Niente in particolare, volevo solo dirti che non c'è bisogno che mi dai del lei, in fondo dovremmo avere la stessa età. Dammi pure del lei... del tu volevo dire, disse Luisa un po' incerta sul finale. Ma non è questione di età, rispose pronto il ragazzo, è che preferisco dar del lei perché è più elegante – Come? chiese Luisa in contropiede. Sì, dar del tu mi sembra un po' volgare, è un'abitudine che credo sia una un po' posticcia. L'abbiamo copiato dagli anglosassoni, ma nella cultura latina si è sempre dato del lei. E preferisco continuare la tradizione. Sempre che per lei ciò non rappresenti un problema. E se lei vuole darmi del tu non mi importa. Continui pure. - Ma dici sul serio? Chiese Luisa perplessa – Sono serissimo, preferisco così. Del resto lei mi sembra una ragazza molto elegante e mi sembrerebbe inappropriato darle del tu. E dicendo così, lo sguardo di lui, per un attimo, quasi distaccandosi dalla conversazione, si spostò, con un rapido battere di ciglia, sulla mano sinistra di Luisa, che era poggiata sul bordo della finestra. Lei in un attimo, e probabilmente per la prima volta da quando lo indossava, sentì il peso dell'anello del padre che portava all'anulare e, con un gesto istintivo, tirò giù la mano per nasconderla dallo sguardo sensibile del giovane. Rimasero entrambi ad occhi bassi. Lui era imbarazzato per l'eccesso di confidenza che dimostrò guardando le mani di lei, Luisa per il gesto istintivo che le risultò infantile. Scusi sa, ma avevo già notato le sue mani e penso che quell’ anello sia perfetto per le sue dita... a proposito di eleganza. - Grazie fece lei – che avrebbe voluto svelarne l'origine, ma che evitò. In quell’istante decise che la loro conversazione dovesse concludersi. Allora buona giornata, fece lui decodificando il pensiero di lei. Buona giornata anche a lei, replicò Luisa.

Quel giorno a lavoro Luisa appariva turbata. Non riusciva a concentrarsi. Il suo capo se n’accorse, ma non disse niente. Evitò di impegnarla come al solito e, un paio d'ore prima del solito orario di uscita, le disse che per oggi poteva andare. Luisa non chiese spiegazioni, lo ringraziò, salutò e uscì dall'edificio. Era un pomeriggio di calda primavera. Il rosso dei mattoni e dell’intonaco delle case contrastava con l’azzurro chiaro del cielo. C’era ancora una forte luce. Aveva voglia di camminare. Aveva bisogno di ritornare in sé. Ripensava alla conversazione della mattina e si ripeteva che in fondo i contenuti del dialogo non erano stati così sconvolgenti. Di certo pensò al ragazzo in maniera diversa. Continuamente. Chi era? Cosa faceva? Che libri leggeva? Perché lavorava lì? Come si chiamava. Ma più di tutto era curiosa di scoprire la sua anima. Voleva sapere se la sensibilità che aveva percepito era sincera o semplicemente era un ragazzo che ci sapeva fare. Poi ripensando al suo anello sorrise. Voleva raccontare l'accaduto a suo padre, ma per lei non era chiaro cosa gli dovesse raccontare. Per certi versi si sentiva molto infantile e questo la divertiva molto. Gli adulti sono bambini che giocano a fare i grandi, le disse una volta suo padre, l'importante e non convincersene troppo. In quella occasione Luisa gli diede ragione.

Il sogno

Passarono alcuni giorni e Luisa scambiò solo dei silenziosi saluti con il giovane guardiano. Sapeva che se gli si fosse avvicinata, nonostante il vetro che li separava, il lago della sua tranquillità sarebbe stato nuovamente turbato. E ancora percepiva delle minuscole onde silenziose, muoversi sullo specchio d'acqua. Ogni sguardo, ogni parola del giovane elegante erano stati come sassolini che bucavano l'acqua. Era una sensazione che lei considerava piacevole, ma che d'altra parte non voleva assecondare. Sapeva che poteva diventare una droga. D'altra parte era consapevole che, prima o poi, qualcosa sarebbe successo. Avrebbe dovuto rinnovare l'abbonamento, ma c'erano le macchinette automatiche. Avrebbero dovuto riparare quella perdita d'acqua che provocava, nei momenti di fitta pioggia, delle piccole pozzanghere a qualche metro dalla sua auto, ma ormai le nuvole sembravano lontane. O semplicemente lui si sarebbe deciso a parlarle. Fatto sta che lei riprese in mano la sua quotidianità e relegò ai brevi momenti di passaggio per il garage quei piccoli turbamenti giornalieri.

Amedeo stava preparando la tesi e passava tutto il giorno davanti al computer, o analizzando il testo di alcuni libroni sparsi sul tavolino del salotto. Aveva anche cominciato a fumare in maniera compulsiva, ma l'odore di sigaretta non disturbava Luisa. Suo padre aveva fumato fino ai suoi 14 anni e quell'odore dava alla casa un aroma familiare.

Una sera i due fecero l'amore e si addormentarono nudi e abbracciati. Il sonno fu immediato e lei precipitò in breve tempo nella dimensione dei sogni. Dopo un prologo un po’ confuso appare il padre, con il viso giovane di qualche anno prima e una sigaretta accesa. Le rivela di non essere il suo vero padre. La notizia non la turba, anzi si sente quasi contenta. Sono nella casa di lei, in uno spazio non reale sul quale affaccia la porta del bagno. Lei entra nella stanza verde. Le pareti sono acquari e sulla parete di fronte alla doccia c'è il giovane guardiano, immerso come gli altri pesci, che legge un libro. Buongiorno grida lei più volte, ma lui non sembra udirla. Lei è pronta per fare la doccia e si vergogna. Il problema non è farsi vedere nuda, ma condividere con lui quel momento sacro. Prova a coprirgli la visuale con l'asciugamano, ma le si disfa tra le mani. I pesci, intanto, nuotano lentamente. Sono pesci piccoli dai colori tenui che nuotano anche intorno al giovane, che è incurante rispetto ai loro movimenti. Solo i suoi capelli reagiscono al loro passaggio, mossi dalle scie dei loro corpi squamosi. Ad un tratto, percependo qualcosa dietro la tendina della doccia, Luisa scosta la separazione e appare sua madre che ai bordi di una vasca sta lavando la testa ad un ragazzino immerso nell'acqua schiumosa. Lei riconosce Amedeo. Lui la guarda e scoppia a piangere coprendosi il volto con le mani. La donna, che in apparenza e la madre di lei, ma che Luisa associa alla madre di lui la guarda perplessa e le indica, con un cenno della mano insaponata, di chiudere la tendina. A questo punto, voltandosi verso il guardiano, lo vede al di fuori della scrivania e si accorge che si tratta di un tritone, metà uomo, quella al di sopra della scrivania, e metà pesce, quella che lei non ha mai visto perché coperta dal tavolo. Lui comincia a nuotare libero e lei lo vede muoversi lungo tutte le pareti. I suoi movimenti sono lenti e armoniosi e i muscoli del suo corpo, ben visibili. Lui scompare dietro la parete della doccia. A questo punto la madre, dietro la tendina, comincia a strillare e il tritone riappare stringendo fra le sue forti braccia il giovane Amedeo, che si agita e non può respirare. Luisa segue con lo sguardo la traiettoria dei due, immobile. Il tritone ha perso la fisionomia del giovane guardiano, ha il volto coperto dalla barba, simile a quella che, dopo la pensione, il padre si è fatto crescere. A questo punto appare la madre che cerca, con i pugni, di rompere il vetro e liberare il figlioletto. Ma Luisa va verso la doccia, smonta il ferro dal quale fuoriesce l’acqua e colpisce alla testa la donna che si schianta al suolo. Luisa rivolge soddisfatta lo sguardo verso il tritone che è immobile. Non c’è più Amedeo e lei si avvicina fino a sfiorare con le mani il vetro. Al suo anulare sinistro c’è un anello con una grossa pietra verde. Dall’altra parte il giovane, barbuto, poggia anch’egli le mani al vetro. Ma trai due non c’è contatto. Luisa pensa di rompere il vetro con l’anello ma non sa se il tritone sopravvivrebbe. A questo punto appare il padre dalla porta, sempre fumando, che le dice Ma certo, i tritoni possono vivere sia negli abissi che all’aria, rompi il vetro, liberalo.
Ma il tempo era scaduto e suonò la sveglia.
Luisa era tra le braccia di Amedeo. Si mosse e lui si rigirò dall’altra parte. Si diresse verso il bagno e tutto il sogno le apparve in mente, per l’ultima volta. Già sapeva che qualche particolare sarebbe sfuggito nel giro di qualche secondo. Che razza di sogno, ho bisogno di una vacanza. Entrò nella doccia e guardando verso la cipolla si accorse che un pezzo di muro si stava staccando. E sorrise.
Il sogno è il ponte tra l’inconscio e il conscio o tra l’anima e la mente a seconda che tu sia Freudiana o Jungiana. Le disse una volta il padre quando lei, appena dodicenne le raccontò un sogno Tu che sei? Gli chiese la piccola Per carità, non penserai mica che io sia Freudiano, Jung tutta la vita!
Indipendentemente da quale delle due fosse Luisa, sapeva che quel sogno le stava dicendo qualcosa. Non credeva nei sogni consiglieri, né tanto meno nei sogni profetici. Pensava che i sogni bisognava interpretarli e svelarne i significati.
Si convinse che quella mattina avrebbe parlato con lui. Le avrebbe chiesto che libro stesse leggendo, come si chiamasse o chissacché non lo sapeva neanche lei. Ma doveva risentire i suoi occhi su di lei. La sensazione di impotenza che aveva provato di fronte al vetro durante il sogno le fece rendere conto come non avesse senso continuare ad ignorarlo. Scese i gradini che la spostavano dalla luce del sole alla luce dei neon e si incamminò verso il gabbiotto. Ma il giovane tritone non c’era. Era tornato il vecchio teledipedente. Abbassò lo sguardo e si sentì sempre più bambina. Decise che quella mattina sarebbe andata al lavoro a piedi. Chiamò il suo capo e gli disse che avrebbe fatto un po’ di ritardo. Tutto bene Luisa? Chiese lui. Lei lo rassicurò e le disse che non c’era nessun problema.

Il capo

Quando Luisa arrivò si mise subito davanti al computer. Il capo le si avvicinò. Con lui non c’era mai stata particolare confidenza. C’era fiducia professionale, ma mai né l’uno né l’altra avevano azzardato a oltrepassare quella linea che separava il privato, dal ruolo in azienda. Ma se Luisa gli aveva parlato della casa e di Amedeo, l’altro aveva intorno a se uno scudo che lo proteggeva da intrusioni non desiderate. Allora? Disse lui con sguardo distratto, Problemi con la macchina? - No no, avevo solo voglia di venire a piedi. E’ così bella la città in questo periodo - E a casa come va? Chiese lui, sfatando il tabù delle domande dirette. Luisa fu sorpresa ma non infastidita. Le piaceva quell’uomo e non percepiva malizia nella sua curiosità. Tutto ok si, Amedeo si sta ambientando e per il resto non ci sono particolari problemi. - Qualcosa c’è, disse lui di spalle sistemando la posta cartacea, mentre lei lo guardava sorridendo. Ma non sono affari miei. Del resto lavori più che bene e questo è l’unica cosa che conta. Però volevo proporti una cosa. Disse lui rivolgendole lo sguardo. Aveva gli occhi piccoli e il mento leggermente spinto in avanti. Non era un bell’uomo, ma era sempre ben vestito e i suoi modi garbati e delicati lo rendevano affascinante. Tra qualche giorno comincia una piccola fiera a Parigi. Julie, la nuova ragazza del gruppo, ha proposto di andarci e mi piacerebbe che la accompagnassi. Così hai anche modo di conoscere i colleghi Francesi. Che ne pensi?
Era la prima volta che le veniva proposto una cosa del genere e le sembrò il momento giusto. Avrebbe cambiato aria e lontano da tritoni, madri e piastrelle verdi avrebbe di certo fatto un po’ di chiarezza.
Quando si parte? Chiese lei con la solita sicurezza che la contraddistingueva in quell’ufficio.

Partenza per Parigi

Sarebbe andata in aeroporto con la sua Y. Amedeo si propose di accompagnarla, ma lei rifiutò. Avrebbe lasciato l’auto al parcheggio dell’aeroporto. In realtà sperava di incontrare il tritone e magari scambiarsi qualche parola. Quando scese nel parcheggio lui c’era, ma non nel gabbiotto, ma stava facendo pulizie con scopa e paletta.
Lei lo vide e lui la guardò. Luisa, avvicinandosi, gli guardò i piedi.
Allora ha anche le gambe disse lei divertita Come? – Non importa, era una stupidaggine. Ma allora lei è un tuttofare – Beh a quest’ora non c’è molto e ho finito il libro che stavo leggendo. – Comunque io sono Luisa piacere disse lei porgendogli la mano destra. Lui passò la scopa da una mano all’altra lasciando che la paletta si reggesse in equilibrio da sola. Si guardò la mano e si colpì due volte la coscia, ipotizzando che con quel gesto l’avrebbe potuto rendere più pulita. Luisa, sorrise al suo gesto, e si preparò al loro primo contatto. Piacere, Felice. – Sì ma non esageri con i convenevoli può bastare il piacere, parlare di felicità mi sembra esagerato. Lui sorrise, No, è che mi chiamo Felice. Ma sono comunque felice di sapere il suo nome. I due si guardarono e risero dell’equivoco. C’è molta polvere qui? Chiese lei che non aveva nessuna voglia di andare alla macchina. Abbastanza. Del resto la polvere è il residuo dei pensieri della gente. Evidentemente la gente che passa di qui ha molti pensieri per la testa. Luisa lo guardò e questa volta il sorriso diventò una dolce risata. Può sembrare una sciocchezza, ma è una frase di un filosofo francese. Mi prendo comunque tutta la responsabilità per la citazione e mi fa piacere averla divertita – N,o mi scusi, per un attimo ho pensato che fosse mio padre a parlare. Lui dice la stessa cosa per la polvere sui libri nelle biblioteche – Era il contesto originario della frase, deve essere un amante dei filosofi illuministi – Sinceramente pensavo fosse una pensiero originale suo e comunque sì, lui è appassionato di libri e deve aver trovato questa frase in una delle sue “esplorazioni” – Le chiedo scusa per l’impertinenza, ma sta partendo? Chiese il tritone bipede indicando il trolley di Luisa. Sì, mancherò qualche giorno. Vado a Parigi per lavoro. – E ci va in macchina? – Come? No no, parcheggio l’auto all’aeroporto – E non ha trovato nessuno che l’accompagnasse? – Beh si qualcuno c’era, ma preferivo così – La accompagnerei io, ma non posso lasciare il posto, mi dispiace. Le auguro un buon viaggio allora, disse lui ossequioso. Lei rimase a guardarlo. Sembrava che le sue ultime parole fossero rimaste bloccate nello spazio fra i due. Lui le piaceva. E molto anche. Fisicamente. Ed era rapita dal suo tono di voce basso ma chiaro. I suoi occhi apparivano forti, in contrasto con l’educazione dei suoi modi. Dalla maglietta si vedevano le spalle ampie, da nuotatore, da tritone. Era quasi convinta di voler perdere il volo, per rimanere lì a guardarlo. E così avrebbe fatto se non fosse stato per una musica che cominciò ad avvolgerla e le cui vibrazioni le sfioravano il cuore. Credo sia il suo cellulare, sta squillando, disse lui indicando la borsa che lei teneva stretta al petto. Come? Ah si scusi. Pronto. Si il biglietto? Il biglietto! Cavolo l’ho lasciata su a casa. Sto arrivando. Scendi tu? Oh grazie amo..re…

Chiuse lo sportellino del telefono e i suoi occhi, lentamente, fecero lo stesso. In un attimo tutto crollò. In un attimo si senti come un aquila che, durante un volo altissimo, immobile e fiero, di colpo si scoprisse vittima, anche lei, delle forze della gravità che subiscono gli altri esseri viventi e cominciò a precipitare. Oh grazie amore… ma come si fa a dire una cosa del genere. Di fronte al Tritone. E come ho fatto a dimenticare i biglietti a casa…non ci sto più con la testa. Ora sa anche che convivo col mio “amore”. Figurarsi, non si avvicinerò mai più. Che stupida! Che stupida! – Il giovane guardiano allora riprese la sua attività. Buon viaggio allora e a presto – Sì grazie e a presto, lasciò il trolley e risalì i gradini che l’avrebbero condotta all’aria aperta. Respirò, poggiando le spalle alla balaustra delle scale. Cazzo! Cazzo! Continuava a ripetere tra sé e sé e continuava a precipitare.

Tutto sommato, nonostante il prologo, il soggiorno a Parigi fu piacevole. I suoi colleghi, che spesso aiutava via telefono, ora ricambiarono le gentilezze di Luisa e la ricevettero come un ospite speciale. Appena la fiera si chiudeva cominciavano a girare Parigi, che già conosceva benissimo. Mangiò nei migliori ristoranti, andò a Teatro a concerti e l’ultima sera organizzarono un piacevolissimo picnic sulle rive placide della Senna, dove il fiume si biforcava per lasciare spazio all’isola al centro della città. I traghetti, lenti, scorrevano quasi per inerzia sulla superficie fluida che rifletteva le luci del basso sole rosso; gruppi di turisti curiosi, agitavano le braccia rivolgendo saluti ai gruppetti di romantici che stuzzicavano formaggi, rompevano baguette e sorseggiavano vino rosso. Per un attimo, rapita dalla bellezza di quel momento, Luisa cominciò a dirigersi verso una essenza libera e leggera. E non era solo merito del vino, ma in quelle situazioni viveva una sorta di estasi estetica, sorrideva, chiudeva gli occhi e viveva tutto dall’alto. Si ritrovò allora profondamente divertita quando, per gioco, si chiese chi avrebbe voluto al suo fianco in quel momento. Amedeo o il Tritone (se il giovano guardiano aveva un difetto quello era il suo nome… Felice… ma come si fa… decisamente meglio “il Tritone”)? Chiaramente non si diede risposta, aprì gli occhi, bevve un sorso di vino e fece due tiri a un joint che le passò un suo collega.

Il crollo della doccia

Al suo rientro le cose minacciavano di ritornare nello stesso ordine con le quali erano state lasciate. Amedeo sul divano, il Tritone alla finestra. Da una parte sapeva che non poteva aspettare un’altra Parigi ma dall’altra sapeva che ogni sua azione avrebbe avuto una serie di effetti a catena che non sapeva dove l’avrebbero condotta.

Una mattina però mentre concludeva il suo rito di inizio giornata, si accorse che la crepa che partiva dalla doccia continuava fino alla parete di fronte e le mattonelle, quelle scure, in alto, cominciavano a staccarsi dalla parete. Era una perdita, da un tubo, che le stava inguaiando il bagno. Mostrò il problema ad Amedeo, cercando da lui una reazione, un intervento. L’unica cosa da fare, secondo lui, è chiamare un idraulico. Provo a chiedere a mia madre.
Lei chiamò il padre che, dopo un paio di domande, e la ipotesi di far intervenire l’architetto, concluse che bisognava rivolgersi all’amministratore del condominio.

Magari il tritone… dovrebbe saperci con le cose che regolano l’acqua, pensò Luisa, consapevole che le motivazioni addotte alla sua decisione non fossero assolutamente plausibili.

Quando Luisa vide il Tritone leggere la gazzetta dello sport ebbe un attimo di confusione. Gli si avvicinò. Starà controllando i risultati dei mondiali di nuoto, e gli parlò. Purtroppo lui non ci sapeva fare con tubi e mattonelle, ma gli propose di indicarle un idraulico amico suo che le avrebbe aiutata. Se si fida potrebbe lasciarmi il suo numero di cellulare e le invio il suo numero in serata.
Luisa accettò, anche se questo continuo uso del lei cominciava a darle un po’ sui nervi. A volte sembrava fosse una pantomima. Tornando a casa si accorse che tre mattonelle, di quelle verdi scure, erano cadute, ma non si erano rotte. Amedeo, inspiegabilmente agli occhi di lei, era sul divano, guardando un partita. Ma come, il mio bagno sta crollando e tu te ne stai li in panciolle sul mio divano. Ma le vuoi almeno raccogliere. Vuoi far qualcosa? Amedeo, nella sua profonda calma, la guardò. Il suo sguardo era uno di quelli che lei interpretava con Ma che vuoi da me? Poi fece una rotazione, assunse una posizione poco naturale rimanendo sdraiato sul fianco, con il viso rivolto verso il bagno. Fissò la parete incriminata per tre, quattro secondi e si risistemò nella posizione originaria Hai chiamato l’idraulico? Le chiese, ma solo per dire una cosa qualunque. E allora lei lo guardò. Ma non disse nulla. Prese la borsa, le chiavi ed uscì.

Quando rientrò. Qualcosa era cambiato. L’immagine di un ragazzo sdraiato sul suo divano, immagine costante negli ultimi mesi, non c’era più. Trovò le tre mattonelle verde scuro impilate l’una sull’altra e un foglietto giallo incastrato fra le due, in cima alla pila. Lei lo sfilò, ma uno dei lati appiccicosi del quadrato si portò dietro una mattonella, che precipitò e questa volta si ruppe in tre parti. Non è stata una buona idea venire a stare qui. Ci vediamo tra qualche giorno, quando ti sarai calmata.
Si sedette sul divano, chiuse gli occhi e si mise la mano destra sulla fronte. Poi raccolse i tre cocci sparsi sul pavimento. Si diresse verso la cucina. Aprì un anta bianca e tirò fuori una bottiglia di vino rosso. Aprì un cassetto e tirò fuori un cavatappi. Poi, indirizzò lo sguardo in alto. La terza delle quattro ante del mobile era di vetro. E dietro si intravedevano i bicchieri a calice, quelli buoni. Li guardo, apparentemente indecisa. Poi, dalla sala, arrivarono tre suoni ripetuti, segnale del messaggio. Il messaggio conteneva un numero, un nome, quello di Felice, e un Spero le possa essere utile. Luisa era seduta nuovamente sul divano, fissando il display multicolor del suo nokia. Poi i suoi occhi si spostarono sul pacchetto di sigarette che Amedeo aveva lasciato sul tavolino. Ne sfilò una e la mise in bocca. Si spostò in cucina dove prese un accendino vicino ai fornelli. Sempre col cellulare in mano. Si poggiò sul lavandino e aspirò il suo fumo di tabacco. E lo cacciò fuori. Vedeva i suoi pensieri scorrerle di fronte rapidi, come dal finestrino del treno. E conoscendo la relatività dei binari, sapeva che era lei che stava dirigendosi verso qualcosa. E la stazione d’arrivo, cominciava ad intravedersi.
Rilesse il messaggio. E questa volta i numeri erano due. Aprì l’anta di vetro e tirò fuori due bicchieri.

Era passata di poco mezzanotte. Di nuovo il display del suo cellulare si illuminò. Questa volta era uno squillo. Uno solo. Andò verso la finestra e guardò fuori. C’era il Tritone. In piedi, fermo, dall’altra parte del cancello di ingresso. Luisa schiacciò un bottone e il Tritone entrò.

L’anello che porto al dito è di mio padre. Quel ragazzo che hai visto l’altro giorno è il mio ragazzo. O lo era. Non so. Stasera abbiamo litigato. Vuoi un po’ di vino? E ti prego dammi del tu. La situazione era piuttosto imbarazzante. Luisa sperava che il vino potesse accompagnare i due da qualche direzione, ma non sapeva decidere quale desiderasse fosse. Il Tritone non parlava. Timido? Si chiese lei. Lui si guardava intorno, facendo osservazioni sulla casa. Era cominciato il giro del secondo bicchiere. Entrambi avevano svuotato il primo in maniera piuttosto rapida.
Musica pensò lei. Si mise al computer e dopo qualche secondo vennero fuori i primi suoni. Ma è possibile che mi debba trovare sempre persone inerti davanti? Possibile che questo non capisca che se l’ho invitato c’è un motivo? E qual è questo motivo? Già qual è questo motivo? Cazzo cosa m’è venuto in mente di fare?

A un tratto il tritone si alzò. Dov’è quel problema del bagno? I due si diressero nella stanza verde. Il muro era gonfio e anche le mattonelle più chiare, più in basso, erano precarie e si aggrappavano come potevano sulla superficie che, fino a qualche giorno prima, pensavano fosse stata eterna. Qui tocca togliere tutto. Cadranno da sole prima o poi e finiranno per rompersi. Posso? Fece lui e staccò la prima piastrella. La passò da una mano all’altra. Luisa lo guardava. E guardava le sue mani che, come fosse un chirurgo, toglievano le squame del suo bagno. Si ricordò il giorno che il padre le aveva allineate una ad una, seguendo le indicazione cromatiche di sua figlia. Fermati, lo faccio io. Prese una asciugamano da un cassetto e lo stese, piegato in tre, sul pavimento. Poggiò le squame già libere su di esso e fece lo stesso con le altre. Si fermò solo quando le mattonelle rimaste non erano quelle coinvolte dalla perdita. Rimase una macchia grigia, umida, circondata da piastrelle verdi, un asciugamano per terra e due ragazzi che ora cercavano parole. Hai un martello? Disse allora lui. Lei lo guardò. Sorrise e pensò al sogno. Tornò con un grosso martello, residuo dei lavori fatti. Ci vorrebbe uno scalpello disse allora il Tritone. Ma Luisa non ci pensò due volte e colpì il muro.

I due erano bagnati dalla testa ai piedi, il pavimento era un lago e dallo squarto del muro fuoriusciva acqua, con un getto che non sembrava voler finire. Il rubinetto generale. Sai dov’è? Luisa rideva e rideva e non aveva nessuna voglia di fermarsi. Si teneva la pancia e rideva. Il Tritone, non ottenendo risposta, pensò che Luisa fosse in preda ad un attacco nervoso. Per fortuna, anticipando uno schiaffo che già aveva in mente di mollarle, si alzò e dietro il gabinetto girò un rubinetto, che interruppe il flusso.

Ecco dov’era la perdita. Disse lei asciugandosi i capelli.

Epilogo

E fu così che Luisa lasciò Amedeo. Uscì altre volte con il Tritone, ma ben presto si accorse che sì, era una persona interessante, ma che non era il suo tipo. Almeno in quel momento. Forse un domani. Solo allora però si accorse e si meravigliò di quanto in lui vedesse suo padre e di quante fossero, almeno nelle sue percezioni, le coincidenze che collegavano il ragazzo al suo genitore.

Non disse nulla al padre riguardo il bagno. Chiamò l’amministratore che, dopo alcuni giorni mandò due operai,un rumeno e un albanese, a riparare tubo e muro.
Nel frattempo l’appartamento era a secco di acqua. Aveva riempito una bacinella azzurra, di quelle per il bucato, allagando tralaltro il pavimento della stanza verde; si lavava all’antica, come le raccontava suo padre quando era un ragazzo e viveva ancora con i suoi nel paese.
Quando i due operai finirono il lavoro, il bagno era di nuovo agibile. Luisa notava la differenza tra le mattonelle originali allineate perfettamente e quelle che erano state sfrattate e poi riaccolte, che invece apparivano leggermente sbilenche, ma forse era solo l’impressione di Luisa. Rimase qualche minuto a guardare la riparazione. Lasciava che la sua mano scorresse sul lucido delle mattonelle, faceva pressione sulla superficie, oppure con il dito seguiva i confini a rete.

Poi guardò la doccia, rimasta inutilizzata per qualche giorno. Ordinò al suo PC di riempire il silenzio, poi prese delle candele e dell’incenso. Spense le luci e si spogliò. Entrò. In quel momento alla musica del computer si sovrappose quella del cellulare. Era la suoneria che aveva associato al padre. Sorrise e lasciò squillare, fino a che quello non si stancò. Aprì l’acqua. E fu pronta per rinascere.